“Il grado di libertà di un uomo si misura dall’intensità dei suoi sogni”
Alda Merini

È un sabato di fine agosto e sto lasciando l’autostazione di Campobasso con un comodo bus della Sati.
A bordo, il personale viaggiante, dotato di un moderno palmare, ha emesso il mio biglietto di sola andata (9.55 euro) per questa magica corsa: Campobasso – Termoli – San Salvo – Pescara. Sprofondato nel sedile, mi godo l’aria condizionata pregustando la Valle del Biferno che il mio bus percorrerà fino alle porte di Termoli sulla Bifernina.A pochi minuti dalla partenza ragiono sull’immensa energia sprigionata da questa grande autostazione dell’Italia centrale zeppa di autobus, autisti e passeggeri. La struttura, è stata ricavata in posizione strategica poco fuori dal centro storico e un sottopassaggio la collega alla stazione ferroviaria di Trenitalia. In pratica più o meno 700 metri e si arriva alla stazione da dove poi in meno di cinque minuti a piedi si arriva a Piazza Pepe, una delle piazze principali della città.
Il mio bus lascia il suo marciapiede e con la coda dell’occhio vedo Giancarlo che sorridente mi saluta. Gli lancio un silenzioso arrivederci, chiudo gli occhi e parte la moviola delle mie ultime 20 ore.
Ieri sera, prima di cena, un Intercity mi ha ‘sbarcato’ alla stazione di Foggia.
Per alcuni è Timbuctu, per altri è Foligno, per Francesco Guccini è Bologna (…ombelico di tutto, mi spinge a un singhiozzo e ad un rutto…), ma per me è indubbiamente Foggia il centro del mondo. Così come Aznavour ama Parigi nel mese di maggio (j’aime paris au moi de mai) io amo Foggia in piena estate. Quattro passi in centro e l’aperitivo al Gran Caffè Duetto in corso Vittorio Emanuele, osservatorio privilegiato sullo “struscio” cittadino, mi hanno permesso di godere dell’attimo fuggente.
Poi Antonio Furore mi ha accolto nella sua trattoria dove ho potuto apprezzare la sua grande ospitalità e la magia dei piatti della tradizione foggiana rivisitati dalle mani ‘sante’ di mamma Maria alle prese con i fornelli. In fondo sono fortunato, per dare sollievo alla mia dromomania mi basta raggiungere Foggia e cenare da Antonio.
Sono andato a letto con il biglietto del bus Foggia – Campobasso sul comodino. Ho comprato il titolo di viaggio al Kiwi Bar, su corso XXIV Maggio (che poi è la via che dalla stazione conduce in centro). Prima di addormentarmi guardo il mio biglietto e noto che ha le effigi della Cotrap ovvero del Consorzio Trasporti Aziende Pugliesi. Il sito del consorzio funziona bene e può essere un valido aiuto per programmare vagabondaggi pugliesi in aggiunta ai vari siti aziendali delle autolinee locali. Comunque, la mattina dopo, all’aurora sono già in strada. Seduto nella panchina vicino alla mia fermata in Piazzale Vittorio Veneto riguardo il mio biglietto Foggia – Campobasso 6.40 euro.
All’alba arriva il mio bus e salgo a bordo. Il sole sorge alle nostre spalle proprio mentre imbocchiamo la Strada Statale 17 verso Lucera. Sullo sfondo pregusto l’Appennino Dauno. Questo primo tratto di strada è pianeggiante e divide un’immensità di campi coltivati (in questa stagione a Pomodori). Il sole nascente in coda al bus diffonde una luce calda che permette alla mia anima di volare via. Mi perdo nella magia del risveglio del cosmo e in un attimo non sono più tra Foggia e Lucera ma sono su uno sgangherato bus in marcia sull’ altopiano iranico.
Compagno di viaggio è Nicolas Bouvier che al mio sguardo compiacente inizia a recitare: “Appoggiati contro una collina, guardiamo le stelle, i movimenti vaghi della terra che se ne va verso il Caucaso, gli occhi fosforescenti delle volpi. Il tempo passa tra tè bollenti, qualche frase, sigarette; poi s’alza l’alba, e s’allarga, le quaglie e le pernici si mettono in mezzo… E ci si affretta ad affondare quell’istante supremo come un corpo morto in fondo alla memoria, dove si andrà a ripescarlo un giorno. Ci si stiracchia, si fa qualche passo, leggerissimo, e la parola ‘felicità’ parrebbe troppo misera e specifica per descrivere ciò che vi succede.
In fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno sia bene per voi; ma alcuni istanti di questo tipo, innalzati da una levitazione ancora più serena di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con una parsimonia proporzionale al ritmo del nostro debole cuore”
. (La Polvere del MondoDiabasis)
È la prima volta che arrivo a Lucera con il bus. Qualche tempo fa la raggiunsi col treno delle Ferrovie del Gargano ma oggi dalla Statale 17 mi sembra ancora più bella. Fuori dalle mura cittadine dormono ancora tutti. È sabato mattina e salgono solo 2 giovani donne che chissà cosa le porta a Campobasso.
Rispettando la tabella di marcia, il mio autista riparte in discesa per attraversare la Capitanata, un tempo regno degli armenti e oggi assediata da immensi parchi eolici (sarà vero che producono tanta energia rinnovabile da far perdonare lo scempio paesaggistico?). A volte mi piacerebbe fare un gesto da pazzo e lanciarmi all’assalto di questi moderni ingombranti e forse inutili mulini a vento. Mi vedo con l’elmo di Mambrino ben calzato sulla testa ritto sul tetto del mio autobus lanciato a tutta velocità contro “quest’obbrobrio energetico a fin di bene”.
Ripenso a quella volta che con gli amici organizzammo una passeggiata in mutande per protestare contro la chiusura di una delle tante linee ferroviarie secondarie classificate come rami secchi. La manifestazione era fissata per gennaio e solo un’improvvisa (per certi versi provvidenziale) nevicata riuscì a farci desistere (per fortuna nostra e del comune senso del pudore). 
Il bambino che è in me crede che se le pale eoliche girassero a dovere potrebbero alimentare un vortice così virtuoso da risucchiarci su per la strada in salita… ma vattene, oggi non c’è neanche il conforto di un debole vento termico e la mia ‘corriera stravagante’ del sabato mattina fatica sulle aspre salite dei monti della Daunia. Ecco il valico e la discesa giù in direzione di Bojano. Il nostro bus corre veloce verso Campobasso ed arriviamo con un po’ di anticipo.
Come metto piede in autostazione vedo il bus delle autolinee La Riviera in partenza per Sepino.
È un’occasione da non perdere, sono anni che voglio andare a Sepino. Salgo e l’autista mi fa il biglietto di andata e ritorno. Partiamo e mi accorgo che sul bus ci sono altri 4 autisti, due de La Riviera e 2 della Molise Trasporti che tornano a casa dopo il servizio.
Ripenso a quella volta che, vagabondo in Italia centrale, un lussuoso autobus rosso della Molise Trasporti mi ‘riportò alla ragione’ conducendomi fino a Roma e ‘rimettendomi sulla buona strada’… Che corsa magnifica: Campobasso – Bojano – Isernia – Venafro – Cassino – Roma.
Vabbè, ma adesso sto andando a Sepino. Gli autisti si conoscono da sempre. A sentirli parlare è una gioia. Vengono tutti dalla guida dei camion ed un tempo facevano l’estero… e via giù a raccontare di quella volta a Barcellona quando Tizio, di notte, si legò all’interno della cabina di guida per paura dei ladri; per non parlare di Caio che c’aveva la donna a Monaco e la moglie, poveretta, non sapeva niente. I miei compagni di viaggio sono gioviali in questo sabato del villaggio.
Faccio amicizia con l’autista ‘che guida’, è Giancarlo. Mi chiede di raccontargli che ci faccio di mattina presto in giro per il ‘Molise profondo’. Quando gli dico che scribacchio di viaggi in autobus diventiamo amici e arrivati a Sepino mi suggerisce di andare a mangiare al bar dove mi raggiungerà alle 13, cioè durante la pausa pranzo del suo turno.
Gli scavi archeologici di Sepino (cioè la zona archeologica di Altilia) sono impressionanti. Dal sito del Comune apprendo che “Saepinum è la città romana di pianura che sorge all’incrocio di due importanti strade: il Tratturo Pescasseroli-Candela attraversato dalle greggi transumanti nei loro spostamenti stagionali e l’altra, ad esso trasversale, che scende dal Matese e continua in direzione della fascia costiera”.
Passo varie ore tra le rovine e poi risalgo in paese, che anche quello merita una visita. Infine mentre mangio un succulento panino che solo in provincia di Campobasso sono così bravi a fare, arriva Giancarlo l’autista. Appena entra nel bar chiama per nome la proprietaria che evidentemente conosce da sempre e platealmente la diffida dal prendere soldi da me perché sono suo gradito ospite (ammazza che servizio La Riviera, pure il panino…).
Anche lui si mangia un panino e poi, quasi a volermi iniziare ad un rito esoterico mi pronuncia la parola d’ordine: “Caciocavallo???”. Io sto al gioco e rispondo a dovere: “Bono!!!”. Senza ulteriori indugi mi porta a comprare un caciocavallo da quasi un chilo e mezzo che mi viene confezionato sottovuoto. Che bel souvenir che riporterò a casa…
I campobassani mi hanno stregato!
W Giancarlo e W gli autobus!.